L' ultimo Luparo del Cilento

Ricordo sempre con grande "meraviglia" gli occhi sempre vispi e pieni di luce di Carmelo Nigro, che tutti, nel piccolo paese di Piaggine (alle falde del Monte Cervati), chiamavano affettuosamente "Zì Carmelo".
L'ultima volta che ho incontrato Zì Carmelo era il giorno del suo compleanno; compiva 100 anni, Zì Carmelo, ed era l’ultimo vero «luparo» del Cilento.
E' morto nella sua Piaggine alla veneranda età di 102 anni.

Cacciatore di lupi "per professione", Carmelo Nigro ha sempre vissuto a Piaggine, nel cuore del Parco Nazionale del Cilento, insieme ai suoi tre figli e ai tanti nipoti e pronipoti.
Mio padre, cacciatore da sempre ed uomo di grande cultura che per vari anni è stato medico condotto del piccolo comune cilentano (1955/1961), mi ha raccontato spesso delle sue lunghe escursioni sul Cervati al seguito del "luparo", per raggiungere i luoghi frequentati dal lupo e controllare le tagliole e le "trappole a laccio" che consentivano a Carmelo Nigro di sopravvivere.

Fino a cinquant’anni fa, in quei luoghi, il mestiere di Luparo era di vitale importanza per i tanti allevatori di pecore e buoi della zona. Spettava infatti al "luparo" stanare e uccidere i lupi che, soprattutto nella stagione invernale, dai boschi del monte Cervati si spingevano fino a valle, dove si cibavano del bestiame. Per dimostrare di essere riuscito nell’impresa, Zi’ Carmelo andava in giro con indosso un singolare vestito: la pelle del lupo ucciso, inclusa la testa. Così facendo, poteva riscuotere la ricompensa messa a disposizione dalle autorità comunali, alla quale si aggiungevano le numerose regalie di pastori ed allevatori, di solito costituite da olio d'oliva e prodotti delle fattorie.
Storie di altri tempi, uomini affascinanti e mestieri scomparsi.
“La caccia e i lupi sono gli unici argomenti che l’hanno appassionato fino ad ieri”, raccontano i familiari. Nei dintorni del monte Cervati, la vetta più alta della regione, tra mandrie di vacche e greggi di pecore, c’era uno dei più consistenti patrimoni zootecnici del Sud. Era il nostro West fino a qualche decennio fa. Trentamila pecore, migliaia di mucche allo stato brado, una miniera d’oro in lana ed agnelli che rendeva ricchi i numerosi comuni sparsi alle falde del grande Cervati. E mille floridi scambi commerciali resi possibili grazie alle lunghe transumanze che attraversavano la sottostante Piana del Sele; e poi la Lucania, fino a Metaponto. Il lupo era il nemico per antonomasia. Lo odiavano perchè sbranava pecore e vitelli, faceva il vuoto nelle greggi e nelle mandrie, spaventava la gente.
Io il luparo l’ho fatto fino a che c’è stata la necessità. Non sono stato io – raccontava – a sterminare i lupi del Cilento. La colpa è di coloro che hanno distrutto i Frainali (chiamava così il bosco più fitto, quello con i giganteschi faggi di montagna). E continuava: “A dannggiare il lupo sono stati più quelli che tagliarono il grande bosco di Mèrcuri e si presero l’acqua del "Calore" (il fiume che nasce sul Cervati) per l’acquedotto, per captare l'acqua e portarla lontano, nella piana di Agropoli”.

Oltre alla tecnica dell'appostamento ed all'uso di lacci e tagliole - che non mancavano di azzoppare anche qualche pecora sventurata - nel periodo fra aprile e luglio Zì Carmelo visitava i siti più inaccessibili e nascosti della montagna; anfratti che soltanto lui ben conosceva, dove il lupo era solito scavare la sua tana per partorire i suoi piccoli. Carmelo il luparo non prelevava mai più di uno o al massimo due cuccioli dalle tane dei lupi, evitando accuratamente di compiere inutili razzie; in fondo, doveva pur preservare il suo "lavoro" futuro...!
Zì Carmelo mi raccontava che era solito portare i cuccioli di lupo a Don Luca Petraglia, canonico del Santuario della Madonna del Monte di Novi.
"...Li portavo io i cuccioli. Lui poi li allevava e tentava di addomesticarli, ma con scarsi risultati. Sì, proprio lui: quel Don Luca, che è stato il fondatore dell' ospedale di Vallo della Lucania."
All'epoca, poi, c'era chi i lupi li mangiava. Il medico Gennaro Vairo ne era particolarmente ghiotto. Il corpo del lupo catturato e ucciso finiva dunque nella pancia del Dottore? Certamente la pelle no; infatti, posizionata e legata su una lunga pertica, o letteralmente "indossata" da Zì Carmelo, la pelle del lupo veniva mostrata in tutte le case del paese. All' invocazione di "Pé santu Suluviestr" (San Silvestro è il protettore degli allevatori), ognuno faceva la sua offerta a Carmelo Nigro. Al coraggioso luparo, che aveva ammazzato il nemico giurato delle mandrie e degli armenti, come detto andavano soprattutto offerte in natura: olio e formaggi, innanzi tutto. E lui li commerciava.
Mentre mi raccontava delle sue gesta giovanili, i suoi occhi accarezzavano continuamente le cime delle montagne che si intravvedevano dalla finestra della sua vecchia casa; e lui mi parlava del suo grande rispetto verso il "sacro animale" che, letteralmente, gli aveva dato da vivere fino agli anni sessanta.
Zì Carmelo era molto orgoglioso della sua vecchia attività.
Aveva cominciato a fare "il luparo" intorno alla metà degli anni venti e questa, da allora, era diventata la sua attività principale.

Lupari abruzzesi dell'800
Prima di quel tempo, ad occuparsi del "problema lupo" sulle nostre montagne erano i più esperti lupari abbruzzesi (come quelli ripresi nella foto), spesso ingaggiati all'uopo dai numerosi allevatori di bestiame del Cervati. Ma nessuno conosceva la Montagna come Zì Carmelo il luparo.
Quando negli anni '40 fu proibita la caccia effettuata con la micidiale tagliola in ferro battuto che triturava gli arti del malcapitato lupo, lui passò alla cattura con il laccio. Vi aggiunse però la tecnica del falso percorso: in prossimità dei luoghi più frequentati dallanimale il luparo piantava rami di faggio a mò di alberelli che correvano paralleli, creando una specie di passaggio obbligato che ingannava il lupo, conducendolo dritto nella trappola.
E, come ho già detto, un' altra tecnica perfezionata da Zì Carmelo era quella della riduzione controllata delle nidiate. "...Nel mese di maggio e fino al 15 giugno andavo a cercare nelle tane i lupacchiotti appena nati e li regalavo agli amici, che provavano ad allevarli. L' esperimento finiva quasi sempre male perché il lupo non è il cane. Non si fa addomesticare e soffre la cattività tanto da distruggere tutto quello che gli viene a tiro, se ne ha l'occasione, o a lasciarsi morire di fame".
Storie del passato? No.
Qui l’allarme lupi risuona ancora. Gli allevatori, quei pochi che ancora restano in attività, tengono però ben celata la notizia. Temono per i nuovi vincoli che potrebbero arrivare dal Parco del Cilento.
“Hanno ucciso dei vitelli in montagna”, sussurrano a mezza bocca nei bar. I lupi sono tornati. Tempo fa un cucciolo, assetato, rimase incastrato in un pozzo. Per salvarlo si mobilitarono volontari, comune e forestale. L’epopea del lupo cattivo è finita anche a Piaggine. Ora l’animale che ha incantato, per la sua raffinata intelligenza, etologi, registi e scrittori, va protetto e tutelato e, chissà, forse un domani non troppo lontano potrebbe addirittura diventare un fattore di richiamo turistico per i gitanti della domenica che, sempre più numerosi, si aggirano sul Cervati.